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di Laura Cellini

Cresce l’attenzione che le parti sociali, il legislatore e il sistema produttivo rivolgono al tema del benessere organizzativo all’interno delle aziende come fattore strategico di crescita, produttività e sostenibilità. Difficile parlare infatti di sostenibilità economica e ambientale senza una seria riflessione a monte sulla dimensione sociale della sostenibilità e sulla responsabilità che le imprese hanno nei confronti dei propri stakeholder: dipendenti, azionisti, clienti, fornitori, comunità locali, istituzioni…

Si parla ormai da anni dell’importanza di conciliare vita privata e vita lavorativa, del senso di appartenenza all’organizzazione per la quale si lavora, dell’attenzione alla catena del valore della propria impresa, delle buone cose che si possono fare per il proprio territorio, di diversity and inclusion. Meglio oggi di ieri, certo. Ma c’è ancora tanto da conquistare, soprattutto se l’accezione è quella di un cambiamento culturale che per essere autentico deve coinvolgere lavoratori e imprenditori.

Tra gli obiettivi forse più sfidanti c’è quello di creare un clima di fiducia e dialogo all’interno delle organizzazioni aziendali, tale da favorire la definizione di azioni concrete idonee ad accrescere il benessere dei lavoratori e con esso la produttività delle aziende. Esempi virtuosi che testimonino la fattibilità del traguardo sono evidentemente importanti e funzionali a far sì che il welfare diventi un fattore strategico di governance e sviluppo delle nostre aziende.

Pari opportunità sul lavoro: la Legge 162/2021

È convinzione diffusa che creare ambienti di lavoro inclusivi e governati da regole chiare, all’interno dei quali si respiri etica d’impresa e senso di appartenenza, produca benefici oggettivi in termini di produttività aziendale.

Se n’è reso conto anche il nostro legislatore, che sta procedendo in coerenza con gli orientamenti regolatori europei. Lo testimonia, fra i vari segnali, la pubblicazione della Legge 162/2021recante modifiche al codice di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, e altre disposizioni in materia di pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo”.
La crescente sensibilità collettiva in materia di pari opportunità di genere e la volontà di rafforzare la tutela della parità tra uomo e donna nel contesto lavorativo hanno reso possibile questa legge che prevede la redazione biennale di un report sulla situazione del personale maschile e femminile. La redazione di tale report diventa obbligatoria per le aziende pubbliche e private che occupano oltre 50 dipendenti – limite fissato in precedenza alle aziende con oltre 100 dipendenti – e volontaria per le aziende pubbliche e private, prima escluse, che occupano fino a 50 dipendenti. Lo scopo è quello di attestare le politiche e le misure adottate dalle aziende per ridurre il divario di genere relativamente alle opportunità di carriera, alla parità salariale a parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere, alla tutela della maternità.

Il meccanismo, basato su una Certificazione di Pari Opportunità, prevede un sistema premiale per le aziende virtuose consistente nell’esonero contributivo fino a un limite massimo di 50.000 euro. È stata emessa a questo fine la prassi di riferimento UNI/PdR 125:2022 che definisce criteri, prescrizioni tecniche ed elementi funzionali alla certificazione di genere.

Le Linee Guida indicano le direzioni da intraprendere per avviare un “percorso sistemico di cambiamento culturale”: dal semplice e puro rispetto dei principi costituzionali di parità e uguaglianza all’adozione di politiche economiche e fiscali mirate a favorire l’ingresso e la permanenza delle donne nel mercato del lavoro.

Le aree da “fotografare” per verificare se un’azienda metta o meno sullo stesso piano uomini e donne sono sei, ognuna con un peso specifico diverso e indici-chiave di prestazione (KPIs) dimensionati sulla realtà aziendale.

  1. cultura e strategia
  2. governance
  3. processi HR
  4. opportunità di crescita in azienda neutrali per genere
  5. equità remunerativa per genere
  6. tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro

Diversity and inclusion

Può definirsi inclusiva un’azienda che attua politiche di diversity inclusion al proprio interno, non solo per rispettare le leggi esistenti ma per rifiutare apertamente i pregiudizi e incoraggiare la pluralità di genere o la diversità etnica o religiosa. È novità abbastanza recente, in materia, la diffusione della norma ISO 30415:2021 dedicata a Human resource management – Diversity and inclusion. L’intento della norma è dare indicazioni precise alle organizzazioni che vogliano certificare la propria attività in tema di Diversity and Inclusion su alcuni processi chiave della gestione delle risorse umane come le modalità di assunzione, la formazione del personale, gli avanzamenti di carriera, l’organizzazione del lavoro…

Tra le principali procedure aziendali di Diversity and Inclusion possiamo indicare le seguenti:

  • garantire le pari opportunità tra generi: monitorare la quota di donne all’interno della propria azienda, garantire la parità di genere relativamente a salari, assunzioni e promozioni, oltre che con misure di flessibilità più utili al loro ruolo come smart working o part-time;
  • includere le persone disabili: oltre agli obblighi già previsti dalle leggi, includere le persone disabili nell’organizzazione significa affidare loro ruoli che possano svolgere senza disagi e a seconda delle loro possibilità;
  • monitorare attentamente e prevenire eventuali criticità all’interno della propria organizzazione derivanti da diversi orientamenti sessuali;
  • favorire lo scambio tra generazioni per far crescere lo spirito di squadra: investire in formazione tecnologica per i dipendenti con più esperienza che rischiano però di restare indietro nell’uso delle nuove tecnologie e prevedere attività di tutor per i più giovani;
  • prevedere attività di inclusione per lavoratori con culture differenti.

Un caso concreto per capirci meglio

Una nota multinazionale del settore high tech già dieci anni fa raccontava come il concetto di Diversity and Inclusion fosse parte da sempre della sua Carta dei Valori, da sempre inserito nel codice di comportamento e da sempre richiesto ai propri manager. Il valore della diversità si esprimeva anche in termini linguistici e culturali, con oltre 27 diverse nazionalità rappresentate in azienda fra i propri dipendenti e collaboratori.
Tutto bellissimo, ma in questo modello di virtù, la parità di genere sembrava non rientrare… Perché le donne di talento non riuscivano ad emergere? Non perché non fosse considerato un obiettivo di business, ma perché non era mai stato gestito come un vero obiettivo di business!

Mancava insomma un piano, un responsabile, degli sponsor, un obiettivo chiaro… I processi HR per le persone non parlavano di abbastanza di Diversity ed era quindi necessario portare la Diversity nella quotidianità.

L’azienda si è mossa definendo cinque macro-obiettivi:

  1. nominare un Diversity Leader, definire una scadenza e un piano di azione
  2. stabilire dei target numerici
  3. monitorare e comunicare al management lo stato di avanzamento del progetto almeno due volte l’anno
  4. rileggere in chiave di Diversity tutti i processi HR: selezione, formazione, sviluppo, valutazione della performance e del potenziale, politiche retributive…
  5. Comunicare internamente ed esternamente i successi raggiunti, anche i più piccoli

In soli 18 mesi, questa semplice ricetta ha portato l’azienda a

  • raddoppiare le donne nel Senior Leadership Team
  • triplicare il numero delle donne nella sua “lista di talenti”
  • lanciare il primo programma di leadership al femminile
  • includere in tutti i corsi manageriali un modulo sull’importanza di gestire i diversi team
  • impegnare le società di selezione ad avere sempre almeno il 50% di donne nella lista di candidature – e che vinca poi vinca il o la migliore!

È solo un esempio, naturalmente. E come tutti gli esempi, ha margini di replicabilità dipendenti da infinite variabili. Tuttavia, vale da ispirazione e prova che certi cambiamenti 1) bisogna prima di tutto volerli e 2) una volta decisi, vanno gestiti con progettualità, metodo e obiettivi precisi.

“Gli obiettivi legati al benessere organizzativo d’impresa dipendono per lo più dalla cultura che l’azienda è in grado di portare avanti, dai valori che è capace di trasmettere e dalla coerenza che riesce a dimostrare”, sottolinea Francesca Rulli. “E questo perché i comportamenti delle singole persone risultino allineati con i valori che l’azienda stessa sente di voler rappresentare. È una grande sfida, si tratta spesso di agire sull’atteggiamento mentale delle persone e non credo si possa pensare di averle tutte a bordo… Ma è dovere dell’azienda e quindi dei suoi manager agire con metodo e tentare di coinvolgere quante più risorse possibile, mettendo a disposizione strumenti e competenze per valorizzare il buono che già esiste e per gestire il cambiamento. Il periodo storico che viviamo, con le sue incertezze anche importanti, non aiuta… Ma la diversità può essere una risorsa preziosa: basta interpretarla con intelligenza e rispetto”.

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